Caratteristiche infarto del miocardio

Il significato etimologico del vocabolo “infarto” deriva dal termine latino “infarctus” che significa “infarcire, occludere” collegandosi quindi all’occlusione di un vaso che rappresenta la principale causa scatenante dell’evento.

Tutte le volte in cui si verifica un insufficiente apporto di ossigeno alle cellule del tessuto cardiaco esse vanno in necrosi e morendo distruggono funzionalmente la parte di tessuto interessata: si tratta dell’infarto al miocardio, la cui gravità è strettamente collegata all’estensione della zona necrotica.

Questa patologia rientra nella categoria delle malattie acute e molto gravi, che possono portare al decesso in quanto l’attività del cuore è indispensabile alla sopravvivenza e qualsiasi sua alterazione funzionale si riflette in maniera particolarmente incisiva sul metabolismo.

Il cuore è costituito da tessuto muscolare, dalla cui contrazione deriva il corretto svolgimento della circolazione sanguigna; nel momento in cui una parte di questo organo non è più funzionante, il flusso sanguigno si altera e l’ossigenazione dei tessuti risulta carenziale.

E’ facile intuire come tutti gli apparati subiscano modificazioni funzionali che possono, a seconda della loro gravità, portare al decesso.

Il significato clinico dell’infarto miocardico si colloca quindi nella medicina d’urgenza (pronto soccorso) poiché, oltre alla gravità dell’episodio morboso, un altro fattore che condiziona la sua evoluzione è legato ai tempi d’intervento che devono essere quanto mai tempestivi per poter avere qualche probabilità di esiti positivi.

Contrariamente a quanto si crede la sintomatologia di questo attacco cardiaco non è particolarmente identificabile, a causa della varietà dei segnali che possono presentarsi sia globalmente che separatamente.

Il fattore quasi sempre comune è comunque rappresentato dal dolore che si manifesta con una notevole intensità, anche se non sempre con tempi prevedibili.

Anche le cause predisponenti mostrano una grande difformità e pertanto la diagnosi certa di infarto viene affidata essenzialmente agli esami ematochimici che vengono effettuati sul paziente al momento del ricovero in ospedale.

Le linee guida comuni a tutti i protocolli clinici concordano sul fatto che, in presenza anche di uno soltanto dei sintomi tipici dell’attacco, è assolutamente necessario recarsi tempestivamente in un nosocomio, dove sottoporsi a tutte le indagini previste in questi casi.

Cause infarto del miocardio

Nella maggior parte dei casi, l’infarto cardiaco deriva da un episodio trombotico di un’arteria coronaria, conseguente a processi aterosclerotici.

Il trombo non è altro che un coagulo di sangue che aderisce alla parete vasale di arterie, vene e capillari, e, a seconda delle sue dimensioni, può arrivare a ostruire parzialmente oppure totalmente il lume del vaso stesso.

Quando dal coagulo si verifica il distaccamento di una sua porzione chiamata embolo, il frammento entra in circolo e può fermarsi a livello di un altro vaso che, avendo un diametro inferiore a quello dell’embolo, viene chiuso completamente innescando un processo di ischemia.

L’embolia rappresenta pertanto una temibile complicanza della trombosi.

Le cause della trombosi sono riconducibili al processo di coagulazione del sangue e si collegano alla Triade di Virchow, ovvero:
– danno endoteliale a livello vasale;
– turbolenza o stasi del flusso sanguigno;
– ipercoagulabilità.

In caso di trombosi arteriose e cardiache, il fattore prevalente è quello lesivo, dovuto alla presenza di coaguli ematici aderenti alle pareti arteriose in seguito alla presenza di ateromi (formazioni prodotte dall’accumulo di molecole di colesterolo, di lipidi o di macrofagi).

Se la parete superficiale della placca aterosclerotica subisce una rottura, si ha la formazione di un coagulo, responsabile dell’interruzione (parziale oppure totale) del flusso circolatorio.

Quando questo evento si verifica a livello delle arterie coronarie (grossi vasi deputati all’irrorazione sanguigna del cuore), si creano le condizioni predisponenti all’insorgenza di un infarto.

L’aterosclerosi consiste in uno stato morboso caratterizzato dalla lenta e progressiva formazione di ateromi nelle arterie e costituiti da molecole di lipidi e da leucociti.

Come conseguenza la parete vasale perde progressivamente la sua tipica levigatezza, diventando discontinua e offrendo così un substrato ideale per la formazione di placche, su cui si innescano facilmente processi di aggregazione piastrinica.

In tale fenomeno si suppone siano implicati anche fenomeni di alterazione delle cariche elettrostatiche endoteliali (normalmente negative), che favoriscono il processo coagulativo, responsabile a sua volta dell’accumulo delle piastrine.

Tutte le volte in cui le dimensioni dell’ateroma raggiunge un valore tale da occludere il calibro vasale dell’arteria coronaria, la conseguente riduzione del flusso circolatorio limita drasticamente l’ossigenazione del tessuto cardiaco che pertanto si necrotizza.

Le cellule del miocardio muoiono nel giro di poche ore e vengono sostituite da un tessuto cicatriziale inattivo che non è in grado di contrarsi, provocando dunque un danno irreversibile al muscolo cardiaco.

La durata e il grado dell’ostruzione sono i fattori responsabili della gravità dell’infarto e delle sue conseguenze; proprio per questo motivo è importantissimo intervenire con urgenza al primo manifestarsi della sintomatologia.

La terapia di pronto intervento prevede l’impiego di farmaci trombolitici, il cui ruolo è quello di sciogliere il trombo per ripristinare un corretto flusso circolatorio a livello delle arterie coronarie.

Una concausa dell’infarto è riconducibile all’insorgenza di uno spasmo coronarico, consistente in un’anomala contrazione dell’arteria, solitamente innescato da assunzione di sostanze stupefacenti.

In tali circostanze, se non si forma un circolo collaterale in grado di vicariare quello del vaso danneggiato, subentra l’infarto cardiaco.

L’infiammazione del pericardio, formato dai due foglietti che avvolgono il cuore, contribuisce a limitare la funzionalità del miocardio, così come l’alterazione funzionale dell’endocardio, che viene pertanto valutato un importante fattore predisponente.

Ruolo dell’angina pectoris nell’infarto cardiaco

Caratterizzata da un caratteristico dolore retrosternale, l’angina pectoris, come indica la sua denominazione, è una patologia che riguarda la regione del petto, irradiandosi talvolta anche alle spalle e alla porzione ulnare del braccio sinistro.

Si tratta di una temporanea riduzione del flusso ematico alle cellule del cuore, responsabile di un fenomeno di ischemia miocardica transitoria che provoca una malfunzionamento del muscolo cardiaco.

La reversibilità del disturbo lo distingue nettamente dall’infarto che è invece responsabile della morte cellulare e quindi di un evento irrecuperabile.

Le cause dell’angina pectoris sono collegabili a patologie delle arterie coronarie che non sono in grado di garantire un adeguato afflusso di sangue al cuore.

Esse possono dipendere da:
– stenosi vasale;
– spasmo coronarico;
– episodi di grave tachicardia;
– crisi ipertensive;
– anemia;
– miocardiopatia ipertrofica;
– stenosi valvolare.

Esiste anche un’angina secondaria che può essere innescata da vari fattori:
– intensi sforzi fisici;
– colpi di freddo;
– stress o paure;
– emozioni intense;
– collera;
– digestione particolarmente laboriosa.

I sintomi di questo stato morboso si ricollegano essenzialmente al senso di costrizione avvertito dal paziente; “angina” deriva dal termine latino “angor” che significa appunto “costrizione”.

Il soggetto avverte quindi un’oppressione al torace, accompagnata di solito da dolore costrittivo che può irradiarsi alle spalle e al braccio sinistro; la sintomatologia dolorosa generalmente mostra un andamento sinusoidale, con episodi acuti alternati a fasi di affievolimento.

In alcuni casi risultano coinvolte anche le dita della mano, la mandibola, la gola fino ad arrivare allo stomaco; può insorgere difficoltà respiratoria, sudorazione profusa, nausea ed episodi di vomito.

Sin tratta di sintomi comuni con numerose altre patologie, come ad esempio il reflusso gastro-esofageo, la gastrite, l’ulcera, dolori vertebrali della zona cervicale, coliche renali oppure biliari.

Esistono importanti fattori di rischio che sono:
– sovrappeso;
– alcolismo;
– sedentarietà;
– fumo;
– ipertensione arteriosa con valori pressori > 90/130 mm/Hg;
– sindrome metabolica;
– ipercolesterolemia;
– diabete mellito;
– forti stress emotivi.

Una corretta diagnosi sta alla base della scelta di un protocollo terapeutico personalizzato; per chiarire i quesiti diagnostici è necessario fare ricorso a esami di laboratorio e a test clinici, tra cui il test da sforzo, la coronarografia, la scintigrafia e il classico elettrocardiogramma, di solito completato anche con un’indagine ecocardiografica.

Il ruolo che l’angina pectoris riveste relativamente alla genesi dell’infarto è stata a lungo motivo di indagine poiché alcune scuole di pensiero li collega strettamente, mentre altri escludono tale correlazione.

Bisogna comunque tenere presente che questo disturbo presenta i medesimi fattori eziologici dell’infarto e che pertanto è ad esso collegabile, sia dal punto di vista clinico che per quanto riguarda lo stile di vita.

Essendo l’infarto un evento spesso improvviso ad esordio brusco e imprevedibile (che colpisce anche soggetti perfettamente in salute) risulta difficile collegarlo a una patologia pregressa, come appunto l’angina pectoris.

Complessivamente si possono collegare le due malattie per lo meno riguardo ai fattori predisponenti, del tutto simili.

Sintomi infarto miocardico

I sintomi dell’infarto cardiaco si possono manifestare all’improvviso oppure lentamente con una tipica escalation che coinvolge in maniera sempre più evidente tutto l’organismo.

Questi segnali, inizialmente piuttosto sfumati, a volte sono presenti nelle ore o anche nei giorni antecedenti all’evento, senza che il soggetto avverta particolari disagi in quanto l’evoluzione dell’attacco è molto graduale.

In alcuni pazienti, soprattutto diabetici oppure anziani, l’infarto può presentarsi del tutto asintomatico.
Spesso comunque l’episodio ha un esordio drammatico e violento.

Esso può colpire sia soggetti perfettamente sani che pazienti anginosi, predisposti naturalmente a questa patologia.

Le manifestazioni più caratteristiche di questo stato morboso sono le seguenti:
– dolore oppressivo al centro del petto
la sensazione tipica di chi ha un infarto in atto è quella di trovarsi schiacciato sotto a un macigno oppure stretto da una morsa, che non si attenua con il riposo né con l’assunzione di derivati nitrati, e che persiste per diversi minuti; tale sintomatologia dolorosa può irradiarsi anche al braccio sinistro, al collo, alla gola, ai denti e alla mascella per scendere poi verso stomaco e parte centrale della schiena;
– dispnea
il paziente avverte la sensazione di “fiato corto” con severe difficoltà respiratorie e fame d’aria che non si placa neppure in seguito a inspirazioni forzate;
– nausea e vomito
spesso subentra nausea dapprima debole ma che tende a intensificarsi progressivamente fino ad arrivare a episodi di vomito, anche a stomaco vuoto;
– sudore freddo
viene alterata la regolazione termica dell’organismo e il soggetto avverte una persistente sudorazione fredda che contribuisce a rendere la cute umida;
– vertigini
il coinvolgimento sensoriale delle fibre nervose è responsabile dell’insorgenza di capogiri prodotti principalmente da episodi di alterazione della regolazione pressoria;
– ansia e nervosismo
il paziente si sente oppresso da un’ansia estrema, da un nervosismo che gli impedisce di stare fermo, anche per ricercare una posizione utile ad attenuare il forte dolore;
– pallore del viso
un segno caratteristico dell’infarto in atto è rappresentato dall’estremo pallore del viso, causato in parte anche dalle modificazioni circolatorie con diminuzione dell’apporto sanguigno a livello periferico.

Nel sesso femminile questi sintomi sono più sfumati e quindi si notano di meno, anche se il dolore retrosternale rimane il principale segno caratterizzante.

In generale si può affermare che la sintomatologia dell’infarto è analoga a quella di disturbi gastrici conseguenti a un pasto molto abbondante e per questo motivo, quando il dolore è assente, la situazione risulta ambigua.

Inoltre è necessario tenere conto del fatto che la sensibilità al dolore è un fattore assolutamente soggettivo, per cui un soggetto potrebbe avvertire un forte dolore relativo a una modesta lesione e viceversa.

Nella maggior parte dei casi il dolore, che rimane il segnale più caratterizzante, insorge nelle ore notturne, a riposo, preferibilmente nel momento che precede l’alba.

La sensazione viene avvertita in mezzo al petto, con una percezione “a sbarra”, che da l’impressione di trovarsi appunto sotto al peso di una sbarra di metallo.

Inizialmente si può instaurare un picco pressorio dovuto al rilascio di adrenalina (neuromediatore della paura) che innesca un’ipertensione di rimbalzo: si tratta di una reazione di difesa attuata dall’organismo di fronte a una qualsiasi situazione d’emergenza.

A questo esordio fa seguito un repentino abbassamento dei valori pressori, con conseguente collasso del paziente, il cui cuore non è in grado di pompare regolarmente il sangue nel distretto circolatorio.

Il malato si sente svenire, presenta un marcato pallore cutaneo e una profusa sudorazione fredda, con un polso poco frequente e quasi inavvertibile (piccolo polso).

Questo viene considerato il momento più pericoloso della crisi in quanto se i soccorsi non riescono a intervenire tempestivamente, l’organismo potrebbe non reagire.
Se la fase viene superata, si ha l’attenuazione di ogni disturbo importante.

Diagnosi infarto miocardico

La diagnosi dell’infarto cardiaco, oltre che sull’indagine obiettiva dei sintomi e sull’elettrocardiogramma, si basa sulla ricerca di marker specifici del danno cardiaco.

Si tratta di sostanze che vengono prodotte nel momento in cui si verifica un danno tessutale e che si accumulano nel sangue soltanto in condizioni patologiche, dato che normalmente sono assenti.

Possiamo distinguere tra:
– marker aspecifici;
– marker poco specifici;
– marker specifici.

Marker aspecifici

Comprendono indicatori di un danno istologico non circoscrivibile a un determinato stato morboso. Pertanto essi vengono poco utilizzati poiché scarsamente attendibili, un esempio di questi marcatori è la lattato deidrogenasi (LDH), un enzima citoplasmatico che nella sua forma LDH1 è presente nel miocardio.
In fase di infarto prevale invece la forma LDH2 che ha una concentrazione maggiore soltanto dopo 24-72 ore dall’episodio, rendendo possibile soltanto una diagnosi tardiva per stati morbosi spesso superati in maniera asintomatica.
I valori di riferimento di LDH sono compresi tra 80 e 300 microunità su millilitro.

Marker poco specifici

Sono sostanze che indicano danni tessutali più circoscritti ma che non consentono di isolare la zona specifica. Tra questi, vi sono la mioglobina (indicatore generico di un danno muscolare, ma non capace di discriminare tra muscolo scheletrico e miocardio) e creatin-chinasi (CK), che viene rilasciata in caso di sofferenza muscolare e trova impiego come isoforma CK-MB per una diagnosi tardiva, oppure per monitorare la progressione del danno.
I valori fisiologici di CK sono compresi tra 60 e 190 U/l, mentre quelli della mioglobina sono tra zero e 85 ng/ml.

Marker specifici

I marker specifici, ampiamente utilizzati in ambito cardiologico, indicano precisamente la zona in cui si è verificato il problema. Il marcatore più utilizzato è la troponina cardiaca, isoforma specifica delle troponine muscolari, che in condizioni fisiologiche non è presente nel sangue, mentre aumenta esponenzialmente in caso di infarto.
Questa sostanza si trova all’interno del miocita (cellula muscolare) ed è costituita da tre sub-unità: TnC (troponina C), TnT (troponina T) e TnI (troponina I).
In caso di infarto vengono rilasciate in circolo le isoforme TnT e TnI, la cui concentrazione aumenta contestualmente all’episodio morboso e viene calcolata su un prelievo ematico.
La loro percentuale aumenta entro le prime quattro ore dal danno e rimane alta fino a quattordici giorni dopo l’episodio.
Un notevole vantaggio derivante dall’impiego di questo marcatore è riferibile alla sua selettività poiché esso indica unicamente danni cardiaci e non muscolari.
La quantità di troponina non viene condizionata neppure dall’assunzione di prodotti farmacologici, e può essere valutata anche in giorni successivi per monitorare l’andamento della patologia.
I valori normali di riferimento in condizioni fisiologiche sono TnT = 0,2 mg/l, TnI = 0,1 mg/l.
Il suo valore plasmatico è quindi pressoché uguale a zero e qualsiasi aumento sopra l’unità deve insospettire anche in assenza di sintomi.
Per completare il quadro diagnostico degli esami ematochimici di solito si effettua anche il dosaggio di CK-MB e di mioglobina.
Tutti questi parametri devono essere misurati almeno tre volte nell’arco delle dodici ore dall’insorgenza del dolore toracico.

Bisogna comunque tenere presente il fatto che l’intervallo di riferimento dei marcatori del danno cardiaco può venire condizionato dall’età, dal sesso e dalle metodiche di analisi, pertanto risulta fondamentale valutarne gli indici consultando i range riportati sul referto.

Oltre ai marker cardiaci, in presenza di uno stato morboso del cuore di solito vengono eseguiti anche altri test laboratoristici, come:
– emocromo completo con formula leucocitaria;
– pannello renale;
– calcolo degli elettroliti;
– profilo epatico;
– glicemia;
– valutazione delle proteine plasmatiche.

Ruolo dell’elettrocardiogramma nell’infarto miocardico

L’elettrocardiogramma (ECG) consiste in un test diagnostico mediante uno strumento in grado di registrare l’attività elettrica del cuore riportandola graficamente su carta.

Questo esame consente di rilevare sia lo stato fisiologico che quello patologico del muscolo cardiaco, oltre che di monitorare il funzionamento di strumentazioni cliniche come pacemaker o defibrillatore.

L’ECG può essere fatto a riposo, sotto sforzo oppure dinamico (holter). Si tratta di un test diagnostico e strumentale finalizzato alla rilevazione dell’attività elettrica del cuore ma non a quella muscolare, oppure alla sua morfologia, che viene evidenziata dall’ecocardiogramma.

Il normale ritmo cardiaco, presente in condizioni fisiologiche, viene chiamato ritmo sinusale e ha una frequenza di compresa tra 60 e 100 battiti al minuto.

Dal punto di vista diagnostico, l’elettrocardiogramma trova largo impiego per evidenziare tutti gli stati morbosi derivanti da alterazioni elettriche del miocardio, tra cui:
– infarto miocardico;
– alterazioni strutturali degli atri e dei ventricoli;
– ischemia cardiaca;
– esiti di un attacco pregresso di cuore;
– alterazione della conduzione elettrica;
– funzionamento di pacemaker;
– monitoraggio di terapie.

L’elettrocardiografo consiste in una strumentazione computerizzata che, servendosi di una serie di elettrodi, registra l’attività elettrica del cuore, riportandola su un foglio di carta millimetrata.

Il grafico così ottenuto prende il nome di tracciato, formato da una sequenza di onde.

L’aspetto delle onde e la loro distanza costituiscono gli elementi utili al cardiologo per interpretare lo stato di salute del cuore.

L’ECG è una procedura non invasiva, estremamente attendibile e di larghissimo impiego. Il suo limite è quello di non avere un significato preventivo in quanto il tracciato si riferisce unicamente al momento in cui viene rilevato, ma non è in grado di ipotizzare il funzionamento del cuore nelle fasi successive.

Il tracciato è costituito da cinque onde identificate con le lettere dell’alfabeto P, Q, R, S, T.

Onda P

Indica la contrazione atriale e viene definita fase di depolarizzazione degli atri, ha una durata media di 0,08 secondi e occupa due quadratini del foglio di carta millimetrata.

Intervallo P-R

Immediatamente successivo ad essa c’è un tratto rettilineo che arriva fino all’onda Q seguente, denominato intervallo P-R: esso esprime il tempo necessario perché l’onda di depolarizzazione si propaghi dal nodo senoatriale attraverso il sistema di conduzione elettrica del miocardio (nodo atrioventricolare e fascio di His).
Avendo una durata compresa tra 0,1 e 0,2 secondi, esso occupa quattro o cinque quadratini.

Complesso QRS

Indica la contrazione dei ventricoli ovvero la loro depolarizzazione, e ha una durata di 0,12 secondi, coprendo tre quadratini.

Onda T

Indica il rilassamento dei ventricoli consistente nella loro ripolarizzazione, ed è seguita da un secondo tratto orizzontale e termina alla successiva onda P, che rappresenta l’inizio della fase successiva.

Intervallo R-R

L’intervallo R-R è indicativo del ciclo cardiaco ed è il valore preso in esame dal cardiologo quando analizza il tracciato.

L’infarto miocardico è caratterizzato da evidenti anomalie del tracciato ECG che comprendono:
– onde Q molto profonde;
– scomparsa delle onde R;
– fusione dell’onda S con quella T (tratto S-T).

A seconda del diverso aspetto del tracciato, il cardiologo è in grado di diagnosticare molti aspetti caratterizzanti dell’infarto; per questo motivo i pazienti che hanno subito un attacco di cuore vengono costantemente monitorati tramite elettrocardiografo, che in caso di alterazioni patologiche emette un segnale per richiamare l’attenzione del personale sanitario.

Esistono vari tipi di infarto, che sono relativi alle differenti zone (miocardio inferiore, miocardio anteriore, miocardio posteriore e miocardio anterolaterale).
Ognuno di questi tipi di evento morboso determina un differente andamento del tracciato, dalla cui analisi è possibile risalire alla natura della patologia.

Come intervenire in caso di infarto

Il successo terapeutico di un attacco cardiaco dipende essenzialmente dalla tempestività dei soccorsi, pertanto è indispensabile non sottovalutare mai i segnali anche aspecifici che possono collegarsi all’insorgenza di un infarto.

La terapia comprende l’impiego di preparati farmacologici oppure interventi chirurgici, come bypass e angioplastica.

Infarto cure

Il principale obiettivo delle terapie rimane quello di sciogliere il trombo, per contenere l’estensione della necrosi miocardica.

La terapia farmacologica utilizza principi attivi che devono essere somministrati con grande cautela a causa dei loro effetti collaterali.

Bisogna quindi distinguere tra terapia d’urgenza, da effettuare immediatamente dopo l’evento, e terapia di mantenimento, che ha finalità sia curative che preventive.

Infatti il trattamento dei pazienti infartuati è mirato principalmente a prevenire altri eventuali episodi, oltre che a eliminare eventuali complicanze come insufficienza cardiaca e aritmie.

Durante la fase acuta trovano largo impiego i farmaci antiaritmici mentre successivamente vengono utilizzati quelli inotropi a dosaggi progressivamente calanti.

Superato lo stadio acuto il paziente deve affrontare positivamente le cure, vincendo lo stato depressivo che nella maggior parte dei casi si impadronisce di lui.

La terapia farmacologica in caso di attacco cardiaco prevede l’impiego di numerosi medicinali, sia nella fase acuta che come mantenimento a lungo termine.

Antiaggreganti piastrinici

Si tratta di preparati la cui attività è quella di limitare la coagulazione del sangue, contribuendo a mantenerlo fluido anche attraverso vasi con calibro ristretto.
Si tratta di acido acetilsalicilico che può essere assunto per via orale il più tempestivamente possibile dopo l’insorgenza dell’infarto.
L’eparina impedisce la formazione dei coaguli e viene somministrata per via endovenosa o sottocutanea nei giorni successivi all’infarto.
Il warfarin viene spesso associato all’acido acetilsalicilico ma deve essere monitorato attentamente in quanto aumenta il rischio di emorragia.

Beta bloccanti

Sono farmaci prescritti per ridurre il rischio di recidive, la cui azione si esplica a livello dei recettori beta adrenergici del cuore.
Grazie al loro specifico meccanismo d’azione essi svolgono anche un’efficace azione ipotensiva oltre che modulatrice sul ritmo cardiaco.

ACE inibitori

Sono prodotti utilizzati soprattutto da pazienti la cui funzionalità ventricolare sinistra risulta compromessa e vengono impiegati anche per regolarizzare i valori pressori.

Nitrati

Comprende una categoria di preparati farmacologici indicati per prevenire l’insorgenza di attacchi cardiaci, soprattutto in presenza di angina pectoris.

Morfina

Soltanto quando l’attacco cardiaco è accompagnato da dolore lancinante può essere indicata la somministrazione di morfina, per via sublinguale oppure orale.

Intervento al cuore

Tutte le volte in cui l’infarto è stato causato da un blocco del flusso sanguigno dovuto all’ostruzione di un vaso, si procede con un intervento di bypass al cuore finalizzato a creare un ponte artificiale in grado di aggirare l’ostacolo per ripristinare correttamente la circolazione sanguigna.

Un’alternativa al bypass è rappresentata dall’angioplastica, una tecnica che consente di introdurre un catetere dotato di un palloncino terminale, che viene riempito d’aria a livello della stenosi vasale per schiacciare la placca ateromatosa.

Per facilitare la ripresa dei pazienti infartuati negli ultimi anni si è sviluppata la cardiologia riabilitativa, una nuova branca medica che si occupa sia dell’aspetto fisico che di quello psicoemotivo del paziente.

Sulla base di accertamenti scientifici, il soggetto viene sottoposto a un vero e proprio training psicofisico personalizzato, che si sviluppa sempre sotto controllo elettrocardiografico, spesso sfruttando apparecchiature telemetriche.

Sarebbe un grave errore sottovalutare l’aspetto psicologico di questi pazienti il cui trauma incide in maniera decisiva sulla qualità della vita.

Dieta post infarto

Anche per l’infarto come per numerose altre patologie cardiache, il regime alimentare gioca un ruolo di fondamentale importanza, in quanto tra i fattori predisponenti risultano particolari cibi ingeriti.

Nella genesi delle placche ateromatose sono risultati particolarmente incisivi i grassi saturi di derivazione animale, come lardo, strutto, burro e tutte le parti grasse delle carni.

Un corretto regime nutrizionistico svolge un’efficace azione preventiva per vari motivi, infatti contribuisce a controllare sia il peso corporeo che la pressione arteriosa e a mantenere fluido il sangue.

Si può quindi dire che l’alimentazione svolge un ruolo terapeutico oltre che preventivo per pazienti che hanno subito un attacco di cuore.

I principi ispiratori di una dieta per infartuati sono:
– consentire di raggiungere e mantenere il normopeso;
– eliminare quasi completamente il sodio dalla dieta;
– eliminare i nutrienti dannosi (come i grassi saturi);
– incentivare i fattori nutrizionali benefici (frutta e verdura);
– nutrirsi con parti piccoli e frequenti.

Un’adeguata ripartizione delle calorie è la base su cui deve fondarsi l’impostazione dietetica dell’infartuato, per il quale un pasto troppo abbondante potrebbe risultare estremamente rischioso in relazione al surmenage cardiaco.

I pasti poco abbondanti sono vantaggiosi sia perché impediscono un’esagerata espansione gastrica, sia in quanto favoriscono il mantenimento di un corretto flusso circolatorio che non viene richiamato massivamente a livello dell’apparato digerente.

Il normopeso è determinante sia nella terapia post infarto che nella prevenzione, infatti l’eccesso di tessuto adiposo è un fattore predisponente all’insorgenza di ipercolesterolemia, ipertrigliceridemia, diabete e ipertensione, tutte concause delle patologie cardiache.

L’apporto calorico derivante dall’alimentazione di un infartuato deve essere calibrato per fornire l’energia necessaria senza provocare variazioni ponderali.

A livello quantitativo è quindi necessario consumare piccoli pasti, mentre a livello qualitativo è opportuno eliminare cibi grassi, ricchi di zuccheri o di conservanti artificiali, privilegiando quelli ricchi di fibre, a basso indice glicemico e preferibilmente integrali.

Cibo che fa male al cuore

La dieta iposodica si conferma estremamente efficace per controllare i valori della pressione arteriosa eliminando la ritenzione idrica, responsabile generalmente di fenomeni edematosi diffusi.

Il sale da cucina dovrebbe essere completamente bandito e sostituito con aromi e spezie naturali, che hanno un impatto favorevole sull’apparato digerente.

Cibo che fa bene al cuore

Uno schema dietetico adatto per un paziente post infartuato prevede il consumo in abbondanza di frutta e verdura, un moderato consumo di carne e pesce magri, con particolare riguardo ai prodotti ittici ricchi di omega-3 e omega-6, presenti soprattutto nel pesce azzurro.

Anche i legumi possono essere consumati liberamente insieme ai cereali integrali, oltre che alla maggior parte di alimenti vegetariani, caratterizzati dall’elevato contenuto proteico e dalla completa assenza di grassi saturi.

Anche gli antiossidanti contenuti principalmente in frutta e verdura di stagione, svolgono un ruolo benefico per tenere sotto controllo la salute di questi pazienti, che devono agire su più fronti alimentari.

Le migliori fonti di fibra sono ancora una volta frutta e verdura fresche oltre che la maggior parte degli alimenti integrali.

Nella dieta post infarto è importante prevedere l’introduzione di magnesio e potassio, due minerali che agiscono positivamente regolarizzando i valori di pressione arteriosa, agendo anche come fattori alcalinizzanti.

Il ruolo delle vitamine risulta di estrema importanza per il loro potere antiossidante; tra queste la vitamina C (acido ascorbico), combattendo i radicali liberi contribuisce a migliorare il benessere globale dell’apparato cardio-circolatorio.

La vitamina A e il beta carotene agiscono in sinergia per potenziare le risposte immunitarie. La vitamina E contribuisce a limitare la formazione della quota LDH di colesterolo.

Secondo le più recenti linee guida, il complesso A-C-E favorisce il benessere del muscolo cardiaco, svolgendo un’efficace azione preventiva nei confronti delle patologie ischemiche del cuore.

Questo fatto si traduce in un’attività protettiva a lungo termine offerta dai tocoferoli che sono implicati anche nel blocco dell’ossidazione delle lipoproteine di trasporto, mantenendole quindi attive ed efficaci.

Riabilitazione post infarto

Le malattie cardiovascolari continuano ad essere la principale causa di morte dei paesi occidentali, inclusa l’Italia.

Anche se il trattamento delle fasi acute ha registrato progressi significativi, responsabili di un sostanziale aumento della sopravvivenza dei pazienti, non altrettanto può dirsi per quanto riguarda gli aspetti emotivi dei pazienti cardiopatici.

La riabilitazione cardiologica diventa fondamentale in fase cronica e costituisce la base della prevenzione a lungo termine.

Molti pazienti cardiologici sviluppano i sintomi tipici di un disturbo da stress post traumatico, che se non trattato adeguatamente, può compromettere seriamente lo stato della loro esistenza.

Un componente indispensabile della vita di questi pazienti è l’operatività, in quanto sentirsi inutili e emarginati contribuisce a peggiorare anche lo stato fisico di questi soggetti.

Il cuore probabilmente è l’organo che maggiormente concentra in sè sia aspetti fisici che emozionali, e quindi è proprio in base a queste due componenti che deve svilupparsi un adeguato programma di riabilitazione e di reinserimento del malato nella società.

Bisogna partire dal presupposto che l’infarto cardiaco consiste in un evento traumatico che quando viene superato lascia dei segni fisici (perdita parziale della funzionalità cardiaca) e psicologici (shock post traumatico) ma consente comunque di condurre una vita tutto sommato normale, a parte l’assunzione di farmaci e i controlli periodici per la funzionalità cardiaca.

Un corretto intervento psicocardiologico deve aiutare i pazienti a superare la paura, a riacquistare la fiducia in se stessi e a interagire positivamente con gli altri.

Nella pratica clinico-terapeutica, la riabilitazione cardiovascolare deve tenere conto anche della paura di eventuali recidive che condiziona notevolmente lo stile di vita dei pazienti.

A questo proposito diventa indispensabile una collaborazione con i famigliari del malato, che devono essere istruiti a mantenere un atteggiamento vigile ma non oppressivo, finalizzato a rilevare eventuali problemi oggettivi di salute, incentivando le potenzialità del paziente e stimolandolo a vincere i propri limiti psicologici.